perchè WINE PARTY...?!

martedì 30 novembre 2010

Non alimentiamo lo spreco!


"Se essere un bravo imprenditore non è una condizione sufficiente per fare del buon vino, non si capisce perchè essere un cattivo imprenditore dovrebbe essere una condizione necessaria."


Con buona pace di chi ne coltiva una visione un po' troppo romantica, il vino è uno straordinario tentativo di dare un senso alla vita _ ma è anche Politica.


Lo si capisce bene pensando all'attuale crisi dell'astigiano, terra d'elezione della Barbera, per cui il Ministro Galan ha concesso la distillazione di crisi per eliminare le scorte: le uve in eccedenza potranno così divenatre alcool.


La crisi economica ha colpito ancora: la domanda si è rattrappita, le esportazioni hanno lievemente ripreso slancio nel primo semestre 2010 (grazie in particolar modo al mercato americano ed al cambio favorevole ai nostri vini), le previsioni sono di nuovo incerte per fine anno. C'è poco da stupirsi: l'Italia ha meravigliosi produttori, ma la competizione globale è sempre più vasta, con interi territori che si sono aperti al culto di Bacco nel corso degli ultimi dieci/vent'anni, e che oggi riescono a realizzare produzioni d'eccellenza, pur mancandogli il blasone dei francesi. Parallelamente, la contrazione della domanda - anche questo è un copione già visto - colpisce soprattutto i produttori di fascia media e bassa. Sono le "cantine sociali sempre sull'orlo del fallimento" prese di mira da Angelo Gaja, in una lettera pubblicata da la Stampa, ripresa dal Corriere della Sera, ed accessibile su un sito benemerito e sempre puntuale, "i numeri del vino.it", curato da Marco Baccaglio.


Angelo Gaja è il più geniale imprenditore del vino che abbiamo in Italia, un innovatore autentico, che ha messo tanta qualità e tanta passione nel suo marchio, da farne il Ferragamo del vino piemontese. Il suo è un vino per cui conta nulla che sia "made in Italy": conta solo che sia "made in Gaja". Gaja ha una visibilità mondiale, ma conosce bene il mosaico di produttori locali che lavorano nelle colline piemontesi. La frammentazione del mercato è una caratteristica tipica dei Paesi europei; pensate che nel solo Bordeaux vi sono circa diecimila viticoltori, cioè due volte e mezzo il numero di imprese che fanno lo stesso lavoro negli Stati Uniti.


Sarebbe normale attendersi un forte consolidamento, che finora non si è visto, in parte per questioni di particolarismo e d'orgoglio, ma in parte per i sussidi a pioggia della politica agricola europea.


Nella sua lettera, Gaja spiega, con convinzione, che gli aiuti ai "piccoli" in crisi non sarebbero altro che un modo per devolvere denaro pubblico per "sostenere una causa persa". Le cantine sarebbero andate al traino della richiesta insensata di produrre, dal 2010, maggiore quantità, quando il mercato era già largamente inflazionato dalle eccedenze. L'indignazione per lo spreco di risorse statali, nota Gaja, è estemporaneo e sterile. Agli occasionali rimbrotti dei giornali, si oppone "un'armata, affamata e difficile da contrastare, di succhiatori organizzati di denaro pubblico".


La situazione attuale, oltre che alla frenata dell'economia, è debitrice ad una ristrutturazione della pac, fortemente voluta dall'ex Commissaria Mariann Fischel Boel. La politica agricola europea per anni si è mangiata metà del bilancio della Commissione. A fronte di numerose polemiche (per esempio gli effetti sui Paesi in via di sviluppo, in cui necessariamente il settore primario è magna pars dell'economia, della sovraproduzione sussidiata e delle esportazioni sottocosto), è stata recentemente più o meno messa sotto controllo.


Ce n'è ancora di strada da fare per smontare una macchina anacronistica come nessuna: ma qualcosa è stato fatto. In particolare si è usciti da una logica per cui il 70% dei sussidi ai produttori venivano destinati alla distruzione delle eccedenze, e si è, almeno in parte, liberalizzato il mercato (per quanto ancora in modo insufficiente), dando più flessibilità nella produzione e nel marketing del vino.


Apriti cielo! Queste norme - di per sè piuttosto timide - sono state accolte come un imprevisto anticipo del giorno del giudizio, biasimate pubblicamente dalle scimmie dattilografe più enologicamente forbite, contrastate in nome del falso dio della "genuinità" del prodotto.


Le cose da fare sarebbero note. La qualità dei vini, in tutto il mondo, è migliorata in modo eclatante negli ultimi vent'anni. I produttori del nostro paese sono troppi, e troppo litigiosi per essere forti sui mercati esteri; la mitologia del buon vineron prevede che egli non faccia marketing (come se promuovere ciò che si produce fosse una cosa cattiva); servirebbero un consolidamento ed un'aggregazione dell'offerta. Servirebbe, insomma, capire che non si rinuncia al romanticismo della vite e del terroir se si fa' impresa davvero.


Se essere un bravo imprenditore non è una condizione sufficiente per fare del buon vino, non si capisce perchè, essere un cattivo imprenditore dovrebbe essere una condizione necessaria.


Finchè la produzione di vino continuerà ad essere condizionata da un intervento tanto massiccio dello Stato, continueremo ad avere un mercato biforcato: da una parte, le imprese, che già ora competono sui mercati internazionali, che sono costrette all'efficienza dalla concorrenza che c'è, sulle tavole del mondo, tra Barbera e Pinot noit o fra Barolo e Cabernet Sauvignon. Dall'altra i succhiatori di denaro pubblico, schierati in parata a difesa del proprio orticello, sotto la bandiera del "made in Italy".


Se il nuovo Ministro dell'Agricoltura vorrà fare qualcosa di liberale e sensato per il vino italiano, le occasioni non gli mancheranno.





Alberto Mingardi

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