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sabato 19 febbraio 2011

Per crescere di più, aiutare ad aiutarsi chi fa di più: 2) le “medie” che esportano, il Sud un disastro

 di OSCAR GIANNINO
Ieri tre notizie sul fronte dell’economia. La prima, annunciata in una conferenza stampa congiunta del governo con banche e associazioni d’impresa, è la protrazione della moratoria bancaria per le aziende. La seconda la conferma da parte del ministro dell’Economia che, al di là dei primi deludenti provvedimenti messi allo studio nel Consiglio dei ministri della settimana scorsa, si mette mano alle misure che formeranno il piano nazionale di riforme che ad aprile dovrà essere presentato dall’Italia in sede europea, per costituire banco di giudizio della nostra affidabilità insieme alla tenuta dei conti pubblici. La terza è che Giulio Tremonti ha detto a fianco di Silvio Berlusocni che anche a suo giudizio per la crescita occorre fare di più, dopo che nei due anni alle nostre spalle l’Europa e i mercati mondiali hanno dovuto riconoscere l’abilità sua e del governo nel tenere sotto controllo il deficit aggiuntivo molto più rigorosamente di quanto avvenisse da parte del più dei Paesi avanzati. E’ una risposta a chi ha immaginato o scritto che il ministro dell’Economia anteponesse considerazioni politiche alla priorità dello sviluppo. Vedere per credere. Ma perché non ammettere che sappiamo benissimo tutti, che per crescere di più bisognerebbe aiutare ad aiutarsi chi già fa meglio e di più? La risposta è: nel dirlo, si commette un delitto rispetto alla logica egualitaria, quella che ripete sempre che gli interventi devono pensare innanzitutto al Sud. So che è tosto affermarlo, ma i fatti sono i fatti. Il gap meridionale chiede una rivoluzione civile e amministrativa di lungo percorso e incerti risultati – è fallita in 150 anni – la crescita aggiuntiva a breve si ottiene puntando su altro.Due parole ancora su Tremonti. Ieri non ha perso l’occasione per “abbellire” la bassa crescita italiana.  Ha messo in guardia da una lettura comparata della crescita italiana che non tenga conto del fatto che, in alcuni casi, altri Paesi hanno ottenuti risultati migliori ma grazie alle bolle mobiliari o immobiliari di cui hanno finito poi per pagare il conto loro, estendendolo anche all’intera Europa. Ha ragione, il superministro dell’Economia? Secondo me solo in parte. Al netto delle basse tasse che hannio spinto le econoie e che restano un bene per me, e non un bene per il ministro – una differenza nopn da poco, in termini di idea generale di che cosa lo Stato debba o non dbba fare, per la crescita , rispetto al mercato e alle imprese – è sicuramente questo il caso della Spagna o dell’Irlanda. Ed è anche vero che nel 2010 e 2011 la Francia cresce più dell’Italia ma con un deficit pubblico superiore del 50% al nostro, superiore al 75 del Pil rispetto al 5%. Ma non è questo il caso della Germania, il leader dell’euroarea che è ai record di crescita come di occupazione dai tempi della riunificazione, grazie a due scelte concomitanti. Grande rigore nella finanza pubblica, perché ha posto in Costituzione limiti tanto al deficit pubblico che alla pressione fiscale, e questo le ha consentito di riallocare il welfare con meno spesa pubblica laddove esso serviva di più al contempo abbassando le tasse. E’ vero altresì come ha detto Tremonti che la Germania resta il grande Paese dell’euroarea con il maggior problema di attivi bancari poco affidabili, da parte delle grandi banche regionali pubbliche che si erano spinte molto in avanti nella finanza ad alta leva. Ed è giusto per questo che nel grande patto europeo di cui si discute in queste settimane, e che si chiuderà entro aprile, non pesino solo il deficit e il debito pubblico ma altresì il debito totale di famiglie e imprese, e la solidità patrimoniale dei rispettivi sistemi bancari, visto che i salvataggi dell’eurodebito sono stati sin qui innanzitutto ancora una volta salvataggi delle banche tedesche e francesi, piene di titoli pubblici greci, irlandesi e spagnoli (i nostri più grandi creditori pubblici sono i francesi, secondo le stime della BRI di qualche mese fa). ma è anche vero che nessuno di questi argomenti sfiora il punto vero di fondo, secodno me, della bassa crescita italiana. Che presiste alla crisi, e non si deve al fatto che virtuosamente avremmo evitato bolle. Per dirne una, abbiamo il sistema bancario meno instabile tra grandi paersi europei, ma ne abbiamo pagato un ben caro prezzo, in termini di spread aggiuntivi a parità di unità di capitale intermediate a imprese e famiglie. E non si è trattato – e non sin tratta – di spread a copertura di una più bassa soglia di rischio di controparte, bensì di premi all’inefficienza del sistema bancario (restiamo per esempio l’unico grande sistema dl credito che esce dalla crisi senza grandi ristrutturazioni industruiali e di addetti e occupati, e che cosa pensi dell’industria dell’asset management l’ho scritto pochi giorni fa a proposito del caso Eurizon-Pioneer: su cui la grande stampa continua a dormire, evidentemente d’accordo con tremonti sull fatto che viene prima l’esigenza di avere un grande compratore nazionale di titoli del debito pubblico, che un’industria del risparmio gestito efficiente per il risparmiatore. Per me vale l’esatto opposto).
Purtroppo il problema della bassa crescita italiana è una costante da diversi anni. Crescevamo meno dei Paesi avanzati prima della crisi, usciamo dalla grande recessione con lo stesso guaio. Fatto pari a 100 il Pil italiano nel 2001 e quello dei paesi avanzati Ocse, quello italiano nel 2007 era solo arrivato a 103,5. Quello OCSE a 113,5. A metà 2009, il punto più grave della crisi mondiale, il nostro Pil era sceso a 97, quello medio OCSE a 111. Se cresciamo dell’1% nel 2011 come nel 2010, a fine di quest’anno il nostro PIL sarà tornato poco sopra il 100 del 2001. Quello OCSE sarà a quota 116.
Sappiamo ormai molto bene, grazie a studi come quelli dell’Ufficio Studi e Ricerche di Mediobanca guidatro da Fulvio Coltorti e della Fondazione Edison del professor Fortis, quali sono le imprese che sostengono meglio l’economia italiana. Se consideriamo il valore aggiunto, il metro per salire nella graduatoria di competitività dei prodotti per un Paese che dipende al 70% della sua crescita a breve dall’export manifatturiero, sono le meno di 10mila imprese medie del quarto capitalismo italiano, quelle che hanno fatto e fanno meglio. Il loro valore aggiunto, da 100 nel 2001 era a 127 nel 2007, è sceso a 112 a metà 2009 e ora è risalito a 117. Molto meglio dei grandi gruppi privati italiani, che da quota 100 erano solo a 106 nel 2007, e che ancor oggi restano a quota 90. Idem dicasi per le esportazioni. Le medie imprese internazionalizzate hanno innalzato il loro export da 100 nel 2001 a quasi 160 nel 2008, sono scese a 135 nel 2009 e ora sono tornare a quota 145. I grandi gruppi sono passati da 100 nel 2001 a 132 nel 2008, per poi scendere a 111 nel 2009 e risalire ora a quota 120.
So bene che errate convinzioni egualitarie vorrebbero che incentivi e politica andassero a chi se la cava peggio, invece che a chi va meglio. Ma è dando una mano proprio ai settori e alle tipologie d’imprese che creano il più dell’export e della crescita aggiuntiva, che noi ci possiamo mettere in condizioni di aggiungere crescita a breve al nostro Paese, occupati e reddito. Ricordando bene un’alta particolarità: siamo il Paese avanzato in cui le piccole imprese non sono solo enormemente più diffuse, ma che già oggi e anche nella crisi hanno mostrato una vitalità nell’export e nell’internazionalizzazione senza pari. Il 21% del nostro export viene dalla piccola, il doppio esatto di quanto capiti in Francia e quattro volte ciò che avviene in Germania. Le piccole hanno bisogno di più capitale e di migliori manager e formazione per crescere, oltre che di meno tasse visto che il sistema per come è congegnato fa gravare su di loro un prelievo sul reddito lordo anche di 30 punti superiore a quello dei grandi gruppi.
C’è poi il problema del Sud, che realizza solo il 7% dell’export italiano. Che non ha saputo mettere a frutto oltre 400 miliardi pubblici spesi in 4 decenni. E che non si fida del federalismo in corso di esame. E’ il capitolo sul quale occorrono non più risorse, ma più discontinuità di procedure – per decidere siti e far lavorare i cantieri delle infrastrutture – e soprattutto di responsabilità delle classi dirigenti locali. Non sarebbe male, se il piano nazionale delle riforme che l’Italia presenterà in aprile all’Europa nascesse proprio dalla volontà di rilancio e riscatto, di un’unità che in un secolo e mezzo ha fallito molte delle sue promesse. Se fosse così, dovrebbe puntare soprattutto su chi ha mostrato di saper fare di più. L’egualitarismo non serve, della crescita anzi è nemico.