Il sogno di Cavour..?! un Italia davvero federale ed amministrata scientemente non sta Palude..
Quando Cavour sognava il federalismo
Il Conte non voleva un’Italia fondata sul modello piemontese. Ma la classe politica respinse ogni idea di decentramento
di Eugenio Di Rienzo
Una vecchia leggenda risorgimentale narra che Cavour, poco prima della sua scomparsa, avvenuta il 6 giugno 1861, affermò di poter morire sereno, avendo ormai creato l’Italia. Personalmente, penso che gli ultimi momenti della sua vita siano stati connotati da minore soddisfazione. Solo pochi mesi prima, infatti, era stato respinto il disegno di legge Minghetti, che prevedeva un riordino amministrativo ispirato ad un ampio decentramento e che intendeva contrastare quella che proprio Cavour aveva definito la «tirannia centralizzatrice». Con il fallimento di quella riforma, in grado di conciliare le esigenze del nuovo Stato con le esperienze, le tradizioni, gli interessi dei governi pre-unitari, il nostro paese avrebbe rinunciato, fino ai nostri giorni, ad un’architettura istituzionale che poteva meglio garantire, insieme all’unità, la crescita di tutte le sue componenti territoriali senza eternare antichi contrasti e creare nuovi squilibri.
Il problema delle autonomie locali non era, infatti, allora come oggi, solo un problema di organizzazione amministrativa ma costituiva soprattutto un problema che riguardava la corretta distribuzione del potere tra la classe politica nazionale e le classi politiche locali e il rafforzamento dei diritti economici, civili, sociali di una nazione. Sarebbe, quindi, difficile negare che l’idea di un decentramento amministrativo su base regionale, o se si vuole di un vero e proprio federalismo amministrativo, potesse rimanere estranea alla tradizione del pensiero risorgimentale. Persino Mazzini nel 1861 sostenne l’esigenza di «riconoscere la Regione quale ente intermedio fra la Nazione e il Comune», precisando che «l’unità non doveva identificarsi necessariamente con l’accentramento». Anche l’apostolo della Giovane Italia, infatti, si rendeva conto che lo Stato unitario si sarebbe dovuto convenientemente strutturare «con un interno moto centrifugo dal centro alla periferia». Mazzini non voleva affatto uno Stato rigidamente accentrato ma sosteneva l’opportunità di conciliare l’unità politico-costituzionale con «una ben intesa autonomia e autarchia delle province e magari delle regioni, per tutto quanto riguardava l’attività legislativa, esecutiva e amministrativa avente ad oggetto materie di interesse locale».
D’altro canto, l’ipotesi di un federalismo amministrativo era fortemente connaturata non soltanto al patrimonio ideale democratico ma apparteneva di diritto al codice genetico della cultura liberale. Il federalismo che si era andato sperimentando e affermando negli Stati Uniti assunse grande valore per il liberalismo europeo dell’Ottocento, per la sua capacità di tutelare ampie sfere di libertà civiche connaturate al principio del self-government. Neppure Cavour, che fino a tutto il 1859 aveva respinto la formazione di uno Stato italiano unificato considerandola una semplice «utopia politica», dimostrò di voler restare estraneo a queste considerazioni, quando, il 2 ottobre 1860, respinse sdegnosamente la qualifica di «accentratore» per connotare il suo programma politico.
Da questo punto di vista è possibile dire, rovesciando il senso di una famosa frase di Massimo d’Azeglio, che se Cavour «aveva fatto gli Italiani», dopo aver individuato nel centro moderato la componente egemonica della futura nazione, il più grave problema da affrontare restava per lui quello di «fare l’Italia» e cioè quello di creare un modello di Stato, capace di unire e non semplicemente di unificare popolazioni divise da realtà storiche, politiche, culturali, produttive. L’Italia sarebbe stata una «corbelleria», aveva sostenuto Cavour, senza realizzare questa unione dal basso e se ad essa si fosse voluto dare corpo sovrapponendo al tessuto policentrico della Penisola le normative statali piemontesi o procedendo ad una centralizzazione autoritaria di tipo bonapartista.
Dopo la scomparsa di Cavour, la classe dirigente italiana preferì invece arroccarsi alla pressoché totale unanimità, senza apprezzabili distinzioni tra Destra e Sinistra, nella difesa del modello centralista. Nel 1881, tuttavia, Marco Minghetti, in uno dei più lucidi manifesti del pensiero liberale prodotto nel nostro paese (I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione) aveva ripreso la battaglia, conclusasi sfortunatamente un ventennio prima, concentrandosi ora sull’obiettivo di realizzare una sorta di federalismo finanziario. Grazie a questa riforma, pur rimanendo sempre al governo centrale «l’indirizzo generale politico interno ed esterno», alle future aree macroregionali doveva essere assegnata «la gestione della gran parte del bilancio della spesa pubblica». Sebbene apparentemente limitata, tale innovazione poteva dar vita a Regioni «economicamente responsabili» per quello che riguardava l’utilizzazione delle risorse pubbliche. Una volta creata la Regione, auspicata da Minghetti, questa avrebbe costituito il punto di coagulo di interessi di rilevante estensione, per rafforzare la capacità dei vari territori italiani di rivendicare una precisa funzione di autodecisione rispetto al governo centrale. Le stesse dimensioni geografiche della Regione dovevano inoltre conferire vigore a tutto l’ordinamento territoriale, aprendogli sbocchi in direzione di una forte evoluzione autonomistica. Nella soluzione proposta da Minghetti ritornava l’ipotesi del federalismo amministrativo voluto da Cavour, in grado di rafforzare, e non certo di indebolire, l’unità statale, innescando un circolo virtuoso di collaborazione tra centro e territorio.
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